Che Pietro Germi sia uno dei più grandi registi del cinema italiano è (o dovrebbe essere) tutto tranne che una novità. Che il genovese sia stato tra i cineasti più sottovalutati o meno compresi del cinema italiano… Beh, anche questo è tutto tranne che una novità.
Massimo Girotti, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
Charles Vanel, Saro Urzì e Massimo Girotti, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
Piccole preture, registi immensi

Capolavori assoluti come Divorzio all’italiana (1961) o Sedotta e abbandonata (1964) vennero a lungo considerati le opere di un bravo “mestierante” della settima arte (“il grande falegname”, lo chiamava Federico Fellini) e gioielli come Il ferroviere (1959), massacrati da una critica solo attenta al proprio interesse ideologico. Tornando ancor più indietro nel tempo, In nome della legge (1949) è uno di quelli che ha subito giudizi particolarmente traviati che snaturano la sua potenza etica ed estetica, giudizi che ancora oggi capita di sentire e che sanno più di ripetizione spasmodica di luoghi comuni che di vera analisi del film.

In nome della legge segue gli sforzi del pretore Guido Schiavi (Massimo Girotti) per dare una svolta alla situazione di abbandono secolare in cui versa Capodarso, paese dell’entroterra siciliano dove è stato destinato. Nella sfida al potere del capomafia, massaro Turi Passalacqua (Charles Vanel), e del barone Lo Vasto (Camillo Mastrocinque), padrone della miniera chiusa che sta condannando alla fame duecento famiglie locali, potrà contare soltanto sulla lealtà del maresciallo dei carabinieri Grifò (Saro Urzì), di Paolino, un ragazzo contadino (Bernardo Indelicato) e della baronessa (Jone Salinas), verso la quale prova un’immediata (e corrisposta) attrazione.

Il film è la trasposizione di Piccola pretura (1920), romanzo autobiografico del magistrato palermitano Giuseppe Guido Loschiavo e prima opera letteraria che si butta a capofitto nel tema della mafia, un onore (e onere) spesso attribuito a Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia (1960). Un magnifico pezzo di narrativa che Aulino Editore riuscì a ripubblicare nel 2019, dopo 70 anni di irreperibilità in commercio, e una sceneggiatura scritta da Germi e Fellini, assieme a Giuseppe Mangione, Mario Monicelli e Tullio Pinelli, molto aderente al testo originale, ma spostando l’azione ai primi anni del secondo dopoguerra.

Massimo Girotti, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
Massimo Girotti, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
Terre di frontiera

In nome della legge segnò per Pietro Germi la scoperta della Sicilia, seguendo quello sguardo neorealista policentrico e stereoscopico che, dalla fine della Seconda guerra mondiale, volle abbracciare tutto il Paese e ridurre le distanze tra i suoi membri, divenuti protagonisti di una delle più belle epopee cinematografiche della storia. Nell’isola che per il regista era “Italia due volte”, storia e mito convivono in uno stesso spazio e fanno a morsi per non morire soffocati nel ventre -narra Gualtiero De Angelis-, “di una sconfinata solitudine schiacciata dal sole, un mondo misterioso e splendido, di una tragica ed aspra bellezza”.

Una stazione sperduta è testimone del passaggio di consegne tra Schiavi e il suo predecessore, sopraffatto dal clima di soprusi e risentimenti (“Sei ancora in tempo, vieni via con me: mi ringrazierai quando saprai la mia storia”); tra di loro, un solitario binario ferroviario, una coltellata tirata dal cielo per separare due dimensioni vitali e temporali ostinatamente contrapposte. E così, nel suo intento per far luce sui crimini che stanno tingendo di sangue Capodarso, il nuovo pretore si imbatte in una terra di frontiera dove il concetto di legge assomiglia alle sabbie mobili, la giustizia è prerogativa dei singoli e lo Stato non può o non vuole arrivare.

“Il mio cliente”, si vanta l’avvocato del barone (Peppino Spadaro), “ha i suoi santi a Palermo, a Roma e qua, soprattutto qua”. Prima con la riapertura della miniera, poi con la dispersione dei solfatari che l’avevano occupata, Schiavi si metterà contro Lo Vasto e Passalacqua, provando sulla propria pelle il loro potere di vita e di morte, e persino contro tutto Capodarso, in un tentativo disperato per squarciare il velo di paura, omertà e diffidenza che asfissia il paese: “Massaro, c’è una sola cosa che io devo e voglio fare a qualunque costo: amministrare giustizia a beneficio di tutti e, se occorre, contro tutti, secondo la legge” / Quale legge, pretore?”.

Camillo Mastrocinque e Massimo Girotti. In nome della legge, 1949.
Massimo Girotti e Saro Urzì, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
C’era una volta la Sicilia

Terzo lungometraggio per Germi, dopo Il testimone (1946) e Gioventù perduta (1948), In nome della legge evidenzia la sua maturità artistica, con un’accurata ricerca formale (basti ricordare il valore simbolico dell’angolazione con cui il barone viene presentato allo spettatore, riflesso in uno specchio, mentre parla con gli sgherri di Passalacqua) e un grande dominio del linguaggio e la caratterizzazione di ambienti e personaggi. Tratto distintivo della sua scrittura visiva, accosta, a un’analisi ravvicinata dei volti degli attori, un immenso respiro visivo, che sboccia in uno degli sfruttamenti più belli ed effettivi del paesaggio siciliano.

Un esercizio filmico dal respiro quasi fordiano, che Germi tanto amava, con la cinepresa che sorvola infinite pianure scarne e colline sulle quali appaiono i mafiosi a cavallo: scelte che ci fanno annusare il meglio di Sfida infernale (1946) o Il massacro di Fort Apache (1948), per citarne solo alcuni. Questa cifra stilistica ha valso al film il titolo di “primo western italiano”, che, volente o nolente, ha affievolito il coraggio civile dell’opera, arrivando una fetta della critica a scambiare questa ricerca formale per una sorta di mitizzazione dei fuorilegge e della criminalità. L’unica risposta possibile è: nient’affatto.

In nome della legge combina un’indagine della realtà dal taglio neorealista, compreso l’utilizzo di attori non professionisti, con una tendenza “americanizzante” che, però, traduce in un film squisitamente italiano (un’alchimia simile a quella di Fernando Di Leo con i classici del noir e Milano calibro 9), dai ritmi serrati, che mostra in tutta la sua crudeltà la paura e la corruzione nella magistratura, l’impotenza dei servitori dello Stato mandati al macello, i meccanismi mafiosi di controllo delle terre e sfruttamento della manodopera, la repressione delle lotte contadine e l’arretratezza morale e materiale alla quale vengono condannati gli ultimi, protetti da nessuno.

Massimo Girotti e Saro Urzì, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
In nome della legge

“Quale legge?”, chiedeva massaro Turi. “La sola legge che ci permette di vivere vicini”, risponde Schiavi, “senza scannarci come bestie feroci”. Girato a Sciacca, luogo del primo “omicidio eccellente” di mafia, il sindacalista Accursio Miraglia (lo stesso che servì da spunto a Sciascia per la stesura de Il giorno della civetta), il film raccoglie la dialettica sociale e condivisa alla radice della produzione artistica di Germi, in cui i problemi del singolo diventano i problemi della collettività. Perciò, quando tutto sembra perso e sta per prendere la strada del suo predecessore, il pretore riceve una scossa brutale che lo convince a non mollare.

Il discorso finale davanti al paese (“Ora che siete tutti qui, vi dico che questo è un processo”, fastigio -poche novità anche qui- dello straordinario lavoro attoriale di Girotti), stroncato da alcuni critici perché “idealizzato”, è in verità un atto di accusa implacabile non soltanto nei confronti della morsa mafia – Stato, ma anche della mentalità mafiosa che permea una parte della società civile –“mentalità che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi”, diceva don Pino Puglisi– e impedisce l’amministrazione della giustizia, l’imposizione del rispetto della legge. Ugualmente colpevole, anche se non preme il grilletto.

Voi, che invece di aiutarmi a svolgere il mio compito, mi avete considerato un nemico della vostra pigrizia. Voi, che avete creato mille ostacoli al mio lavoro, che mi avete osteggiato come e quando avete potuto, che mi avete disprezzato e ignorato, denunciandomi come un perturbatore della vostra comoda quiete. Voi tutti, uomini e donne, che vi siete lasciati avvilire dalla paura anche quando si trattava di scoprire e punire gli assassini dei vostri figli, che avete tentato di sopraffare la legge persino quando difendeva i vostri interessi.

E quella fantomatica idealizzazione -la momentanea sottomissione del capomafia-, la fa saltare in aria il proprio Schiavi: “Rimarrò qui finché sarà necessario e farò il mio dovere fino in fondo, con voi o da solo, fino a quando il colpo di una qualsiasi doppietta non mi ammazzerà”. C’è poco da mettere in dubbio: Piccola pretura e In nome della legge sono il primo romanzo e il primo film che parlano apertamente del cancro mafioso e di tutte le sue ramificazioni e costituiscono le prime pietre nella creazione della coscienza italiana di fronte al fenomeno criminale. Al pentito Tommaso Buscetta, Schiavi ricordava “la forza tranquilla della giustizia” di Giovanni Falcone.

E “maledetta la terra che ha bisogno di eroi”, diceva Bertolt Brecht.

Massimo Girotti, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.
Ignazio Balsamo e Charles Vanel, In nome della legge. Pietro Germi, 1949.

In nome della legge

Un film di Pietro Germi, 1949. Italia, Luigi Rovere per la Lux Film. 97′, b/n.

Soggetto: Giuseppe Mangione, tratto dal romanzo Piccola pretura di Giuseppe Guido Loschiavo. Sceneggiatura: Federico Fellini, Giuseppe Mangione, Mario Monicelli, Pietro Germi, Tullio Pinelli. Interpreti: Alfio Macrì, Aldo Sguazzini, Camillo Mastrocinque, Carmelo Olivieri, Charles Vanel, Ignazio Balsamo, Jone Salinas, Massimo Girotti, Nadia Niver, Nanda De Santis, Peppino Spadaro, Saro Arcidiacono, Saro Urzì, Turi Pandolfini. Fotografia: Leonida Barboni. Montaggio: Rolando Benedetti. Scenografia: Gino Morici. Musiche: Carlo Rustichelli.

“Un film per gente all’antica”:

IL FERROVIERE: ITALIA, QUO VADIS?