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Soliti ignoti e dollari, incomunicabilità e nevrosi, madri, amici e altri animali: di trilogie, alcune di cui eccelse, il cinema italiano ne ha conosciute parecchie. All’alba degli anni ’70, quando strade, fabbriche e scuole erano in fiamme e la stagione del poliziesco in piena effervescenza, sua maestà Fernando Di Leo volle contribuire alla causa con la “trilogia del milieu”, tre capolavori -sostantivo né forzato né compiacente- da lui diretti e scritti in solitario, sfornati nel giro di una manciata di mesi: Milano calibro 9 (1972), probabilmente il più perfetto, anche se la partita è bella tosta, La mala ordina (1972) e Il boss (1973).
Dopo le storie a sfondo meneghino di Ugo Piazza e Luca Canali, ispirate alla raccolta di racconti Milano calibro 9 di Giorgio Scerbanenco, Di Leo prese spunto dal romanzo Il mafioso di Peter McCurtin, spostando l’azione da New York a Palermo, per finire in gloria la trilogia: il rapimento di Rina Daniello (Antonia Santilli) mette alla prova la fedeltà di Nick Lanzetta (Henry Silva), da quindici anni al servizio di suo padre, don Giuseppe (Claudio Nicastro); il boss sa che lui è l’unico capace di salvarla, ma il sequestro apre alla possibilità di una riorganizzazione della scacchiera economico-politica alla quale nessuno è disposto a rinunciare. Né a Palermo né a Roma.


Da killer italo-americano (David Catania ne La mala ordina) a killer palermitano, Silva -tra i volti prediletti di Di Leo: attore e regista si rincontreranno nel corso degli anni ’80 in Razza violenta e Killer contro killers– sembra fatto su misura per il ruolo. Uomo senza storia, orfano, allevato come un figlio da Daniello, nella sequenza iniziale rade al suolo la sala cinematografica dove alcuni esponenti della famiglia rivale Attardi si sono radunati per guardare un filmetto pornografico: sei minuti che valgono intere filmografie. “Solo un uomo con la sifilide al cervello come Lanzetta può andare in giro sparando con un lanciagranate. Cristo, che fenomeno!”.
La mossa -tutto ciò che ci è dato sapere sul suo conto: è una perfetta macchina per uccidere- e la contromossa del sequestro di Rina scatenano una guerra aperta tra famiglie molto sconveniente in un’Italia sotto le elezioni. Per porre fine all’escalation di violenza senza privarsi del succulento riordinamento di poteri che essa ha messo sul tavolo, Lanzetta diventa l’obiettivo da abbattere, “il capro espiatorio comodo a tutti. La questura deve avere modo di chiudere la pratica”. E, a rappresentare quei “tutti”, troviamo una guida al più raffinato cinema italiano (e non), a cominciare dai don di Nicastro e Richard Conte, fresco di un altro boss, l’Emilio Barzini de Il padrino.


Nei panni di Cocchi, il calabrese, erede degli Attardi e cervello del sequestro, giganteggia Pier Paolo Capponi, stupendo già nel primo adattamento “scerbanenchiano” del regista barese, I ragazzi del massacro (1969) e posteriormente in Diamanti sporchi di sangue (1978). Scheggia impazzita e spietata, è suo il complimento (?) della sifilide al nemico Lanzetta, pronunciato alle porte dell’obitorio, con i suoi “fratelli” trucidati alle spalle. “Cocchi, com’è che non eri nel cinemetto? / Mi ritrovavo in pellegrinaggio al santuario dell’Immacolata e la Madonna mi ha fatto la grazia. Io sono assai devoto, commissario”.
A formulare la domanda è, appunto, il commissario Torri, impersonato da un Gianni Garko che parcheggia qualsiasi ideale di giustizia sartaniana, spavaldo e ruffiano, colluso con la malavita, nostalgico dell’ordine mafioso. Assieme a lui, il questore (Vittorio Caprioli) e l’onorevole Gabrielli, rappresentante della commissione antimafia (Mario Pisu), cinici e disillusi, tra mani legate e dossier pubblicati a metà, e quel gigante chiamato Corrado Gaipa, l’avvocato Rizzo, che “parla per bocca di Sua Eccellenza”, trait d’union tra i mondi legale e illegale: “Mi hanno telefonato da Roma e anche a Palermo sono molto preoccupati: troppo rumore”.
E non poteva mancare un grande personaggio femminile in casa Di Leo. Dopo la straordinaria Nelly di Barbara Bouchet in Milano calibro 9 e il magnifico trittico de La mala ordina (Francesca Romana Coluzzi, Sylva Koscina, Silvana Paluzzi), con Il boss arriva Rina, protagonista di una rivoluzione mancata che la getta in una voragine esistenziale di autodistruzione fisica e morale. Santilli, perfetta per il ruolo dal punto di vista estetico, si mostra poco convincente nella prima metà del film (un po’ di sexploitation, un leggero spaesamento attoriale), ma più sicura nella seconda -smarrita, commovente, vera-, grazie anche al doppiaggio di Vittoria Febbi.


“Sembrano venute dal Vietnam”, il questore scuote la testa, mentre guarda le fotografie del cinema divorato dal fuoco; “Palermo come Beirut”, titoleranno i giornali il 29 luglio 1983, dopo la morte del giudice Rocco Chinnici, ideatore del pool antimafia e trucidato da Cosa nostra con un’autobomba. Una Palermo nera fisicamente e moralmente (la fotografia di Franco Villa, una delle colonne portanti della trilogia, è poesia di ghiaccio e fuoco nelle scene notturne) funge da palcoscenico a una storia dove si moltiplicano sia i nomi dei protagonisti che il numero di cadaveri, a rendere tangibile la ragnatela di corruzione che copre l’Italia come una sindone.
Una sceneggiatura dalla bellezza strabiliante, complessa, mai confusionaria, piena di ribaltamenti, per un film che è violenza -c’è chi, morto o meno, viene fatto sparire nella fornace, chi si ritrova un coltello a scatto in bocca, chi accende il motore della macchina e salta in aria-, azione e senso dell’intrattenimento allo stato puro (di nuovo, un montaggio folgorante di Amedeo Giomini, anche lui anima del milieu), ironia crudele, cinismo q. b. E, se mancava qualcosa, Luis Bacalov, padre delle note di Milano calibro 9, firma un’altra colonna sonora indimenticabile. In breve? Un compendio del miglior Di Leo, dove forma e sostanza vanno perfettamente, sinceramente unite.
Perché Il boss è un film dalla violenza feroce e dal realismo ancor più feroce. Nel fotogramma finale, sulla faccia compiaciuta di uno dei personaggi, non si legge FINE, bensì CONTINUA. Non poteva essere altrimenti in un’opera seminata di riferimenti tutt’altro che casuali al mistero-non-mistero attorno alla vita e morte di Salvatore Giuliano, mirabilmente dissezionato da Francesco Rosi nel 1962. Di Leo non rinunciò mai alle sue convinzioni come uomo e intellettuale di sinistra, alla sua voglia di guardare e raccontare sempre “oltre”; questo, però, è il suo film più apertamente politico, nel quale fa nomi e cognomi. E non è un modo di dire.


Se Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, gridò durante il processo-farsa alla banda per la strage di Portella della Ginestra che banditi, mafia e carabinieri erano una “santissima trinità”, in una delle migliori scene de Il boss (tutte, ma qui il testa a testa tra Capponi e Garko è epico), il calabrese passa in rassegna i mafiosi bruciati da Lanzetta: “Allora, Cocchi, a che punto siamo con l’identificazione dei tuoi amici? / Lima aveva sul braccio destro un tatuaggio con la bandiera americana, Matta aveva al mignolo un anello, Gioia aveva un neo sul culo, Buscetta aveva l’orchite, era senza una palla…”. Una bomba di profondità nella sede della Democrazia cristiana.
Il boss conferma la perfetta saldatura tra potere legale e illegale, facendo a pezzi il mito dell’uomo d’onore -soldi, droga e voti sono gli unici motori del sistema- e sottolineando la denuncia di Antonino Caponnetto, sostituto di Chinnici, circa la specificità della mafia, ovverosia il suo rapporto privilegiato con le élite dominanti e le istituzioni, che le garantiscono una presenza stabile nella struttura dello Stato. “Io giravo i miei film e due o tre grossi registi si facevano l’aureola con Sciascia, però chi ha avuto i picciotti sotto casa ad aspettarlo, i film sequestrati e le querele dai ministri, sono stato io”, ricordava Di Leo. “Cristo, che fenomeno!” (cit.).
Il boss
Un film di Fernando Di Leo, 1973. Italia, Cineproduzioni Daunia 70. 105′, colore.
Soggetto: Fernando Di Leo, tratto dal romanzo Il mafioso di Peter McCurtin. Sceneggiatura: Fernando Di Leo. Interpreti: Antonia Santilli, Claudio Nicastro, Corrado Gaipa, Gianni Garko, Gianni Musy, Henry Silva, Howard Ross, Marino Masè, Mario Pisu, Pier Paolo Capponi, Richard Conte, Vittorio Caprioli. Fotografia: Franco Villa. Montaggio: Amedeo Giomini. Scenografia: Francesco Cuppini. Musiche: Luis Enríquez Bacalov.
Dichiarazioni tratte da: Fernando Di Leo: la morale del genere (Manlio Gomarasca, 2004).
“Gli italiani hanno in mente uno strano tipo di gangster: esattamente come voi”: