Il 12 dicembre del 1969 qualcuno volle portare l’Italia indietro di molti anni. Alle 16:37, una bomba collocata nella Banca nazionale dell’agricoltura di Milano causò 17 morti e 88 feriti. Un’altra bomba venne ritrovata inesplosa nello stesso pomeriggio nella Banca commerciale di Piazza della Scala e altre tre scoppiarono a Roma. “La madre di tutte le stragi” diede il via agli “anni di piombo” e a farraginosi processi giudiziari che varcarono la soglia del nuovo millennio e finirono con l’assoluzione definitiva degli imputati -anarchici, neofascisti, servizi segreti- in due ondate: il 27 gennaio 1987 e il 12 marzo 2004.

Renzo Montagnani, Luigi Diberti e Gian Maria Volontè in Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli. Elio Petri, 1970.

La strage, che scosse le fondamenta del nostro Paese, sembra destinata a essere archiviata senza colpevoli né mandanti, ma una ricostruzione attenta del rompicapo socio-politico dell’ultimo mezzo secolo italiano ci induce a pensare che Piazza Fontana fosse anche una strage di Stato. L’inchiesta partì subito col piede sbagliato. Nello stesso giorno, il questore Marcello Guida, direttore del carcere di Ventotene ai tempi del fascismo, affermò: “Le indagini si stanno svolgendo a 360º”. Non era vero: l’obiettivo era far ricadere le colpe sulla sinistra extraparlamentare e la pista anarchica nacque all’interno dell’Ufficio affari riservati.

Perché Piazza Fontana voleva colpevoli fatti a tavolino. Anzi, un colpevole, Pietro Valpreda, che venne presentato dalla stampa come “il mostro”, poiché non tutti possono permettersi la presunzione di innocenza. Ma non fu l’unico. Quella sera vennero fermati quasi un centinaio di anarchici, tra cui Giuseppe Pinelli, 41 anni, staffetta partigiana tra il 1944 ed il 1945 e poi, caposquadra manovratore alla stazione di Porta Garibaldi. Uno dei nomi più popolari del movimento anarchico meneghino, impegnato nella costruzione di una rete di solidarietà con i compagni incarcerati dopo gli attentati del 25 aprile.

Quando arrivò al Circolo Ponte della Ghisolfa, da lui stesso fondato, i poliziotti stavano già perquisendo il locale e lo invitarono ad accompagnarli alla questura di via Fatebenefratelli. Pino era sereno, nulla poteva emergere a suo carico e conosceva la procedura. A dirigere l’interrogatorio, una vecchia conoscenza, il commissario Luigi Calabresi. Tre giorni e tre notti senza dormire, fino alla mezzanotte del 15 dicembre, quando il corpo del ferroviere venne scaraventato giù da una finestra dell’ufficio politico. Secondo Calabresi, “Pinelli ha compiuto un balzo felino verso la finestra, che per il caldo era stata lasciata socchiusa, e si è lanciato nel vuoto”.

Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli. Elio Petri, 1970.

E, anche se le versioni ufficiali di come sarebbe avvenuto il “suicidio” -per Guida, la prova irrefutabile della sua colpevolezza- sfioravano il delirio, il 27 ottobre 1975 tutti gli indagati vennero prosciolti da ogni accusa. Né suicidio né assassinio: per il giudice Gerardo D’Ambrosio, “verosimilmente”, Pino era morto a causa di un “malore attivo” che gli provocò “un’improvvisa alterazione del centro di equilibrio”. Il Comitato di cineasti contro la repressione decise di mettere su pellicola tutte le incongruenze di quella vergognosa messinscena nel film Documenti su Giuseppe Pinelli, ma soltanto due dei cinque episodi previsti videro la luce nel 1970.

Il primo, “Giuseppe Pinelli”, diretto da Nelo Risi, ripercorre la figura del ferroviere attraverso le dichiarazioni di compagni di lavoro e testimoni presenti durante la detenzione. Il secondo, “Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli”, diretto da Elio Petri e con Gian Maria Volontè davanti alla macchina da presa, è una brillante controinchiesta, pregna di amara ironia, che dimostra l’impossibilità materiale di uno “scatto”, volontario o fortuito, verso la finestra. Il corpo cadde scivolando lungo i cornicioni, inanimato, e l’ambulanza era stata chiamata qualche minuto prima dell’incidente. “Pino Pinelli, l’ultimo di una lunga serie di anarchici suicidi”?

Un esercizio straordinario di cinema politico e impegno civile che all’epoca si unì allo scalpore suscitato da un altro capolavoro della coppia, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (“I botti terroristici, le intimidazioni, le bombe, che minchia c’entrano con la democrazia?”). Quel che è certo è che Pino non fu mai incriminato per la strage di Piazza Fontana. Il 12 dicembre del 1969 morirono 17 lavoratori italiani e molti innocenti furono sottoposti a un brutale linciaggio morale e fisico. Anche la verità venne uccisa e, forse, un po’ della nostra Repubblica. Più di mezzo secolo dopo, “la madre di tutte le stragi” rimane ancora orfana.