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“Mi chiedono: ancora Fantozzi?”, ricordava Paolo Villaggio durante un’intervista rilasciata alla televisione svizzera nel pieno del successo dei primi due film della saga, “e io rispondo: adesso più che mai”.
Le avventure disavventure di “Fantozzi ragionier Ugo, matricola 7829 / bis, facevo lo straordinario; mi scusi, signor notturno, se l’ho fatta un po’ spaventare”, nate a puntate sulle pagine de L’Europeo e poi protagoniste di due fortunatissimi romanzi, approdarono sul grande schermo per la prima volta nel 1975 ed “entrarono in società”, per usare le parole di Honoré de Balzac, “come una palla di cannone”, ovvero, come una delle stagioni più divertenti, intelligenti e caustiche del cinema italiano, con tanto di universo linguistico annesso, a cavallo tra un italiano “clamoroso” e iperbolico e un massacro delizioso (che Dante ci perdoni) dei tempi verbali: “Ragioniere, che fa, batti? / Mi da del tu? / No, dico: batti lei? / Ah, congiuntivo!”.
La saga è un susseguirsi di battute e scene di culto, figlie degli straordinari tempi narrativi del genovese, i quali vissero -esperienza tutt’altro che facile- una trasposizione su pellicola pressoché perfetta, a braccetto con un complesso di attori tagliato su misura per i rispettivi ruoli: non soltanto i personaggi principali -dal proprio Villaggio al geniale ragionier Filini di Gigi Reder, dalle due Pine (Liù Bosisio, Milena Vukotic) alla signorina Silvani (Anna Mazzamauro) o il geometra Calboni (Giuseppe Anatrelli)-, ma anche quelli episodici, come “Loris Batacchi, capoufficio pacchi” (Andrea Roncato) e “il professor Zambrini Loredan, detto Jack lo squartatore” (Alessandro Haber). Per rendere giustizia a tutti, dovremmo trascrivere i copioni. Letteralmente.

Villaggio parlava della coincidenza tra personaggio e momento storico per spiegare il fenomeno Fantozzi, ma la tragedia del ragioniere oltrepassa il tempo e lo spazio. Ugo è figlio dello scrivano Bartleby di Herman Melville e collega del commesso viaggiatore Willy Loman di Arthur Miller, condivide il cappotto con l’Akakij Akakievic di Nikolaj Gogol’ e, come il Lulù Massa di Gian Maria Volontè, che non sapeva a cosa servissero i pezzi che produceva a cottimo sull’orlo della pazzia (“Che vita è la nostra? Questo è un pro forma!”), è perso in un groviglio schizofrenico di sigle, titoli e consigli di assenti nel seno di un’illustre società, l’Italpetrolcemetermotessilfarmometalchimica, che nessuno sa di quale settore si occupi.
Fantozzi è, difatti, la “trilogia della nevrosi” di Elio Petri seduta su una scrivania: in fabbrica o in ufficio, la classe operaia non va in Paradiso, cade senza gloria, vittima del sistema post-industriale. Immobilizzato da una doppia mossa esistenziale pubblica e privata, Ugo va avanti a colpi di miraggi di libertà, una vita fatta di inerzie, in cui persino i momenti di svago e dissidenza controllata -indefettibilmente fallimentari, con o senza l’accento svedese: “Buondì! / Fantozzi, è lei?”– richiedono il nihil obstat di quelli che, leggenda vuole, hanno le poltrone in pelle umana, anche se ai sottoposti fanno vedere uffici che sono poco più che una cella monastica: “Un sorso d’acqua, un tozzo di pane? / Io, mangiare con lei? / Certo, ma che differenza c’è tra me e lei?”.
Tutte. La classe dominante, con la scritta “Buon Natale” rivolta verso l’interno dei propri uffici, prepotente ed endogamica persino dal punto di vista cinofilo, li disprezza o, nella migliore delle ipotesi, li osserva dall’alto (irraggiungibile) con curiosità antropologica. Dai conti Serbelloni Mazzanti Viendalmare, tra calici infiniti e pietanze impossibili, Ugo cerca lo sguardo dell’ispettor degli ispettori, Corrado Maria Lobbiam (Ugo Bologna): “Come sto andando, scusi? / Male, per Dio!”. Non è che un altro bullone, una tra le milioni di vite girando attorno al lavoro, alfa e omega in una struttura sociale moderna -vale a dire, feudale- e assassina, che trova il suo riflesso più spietato nel botta e risposta con la contessa (Nietta Zocchi): “Impiegato. / Fantozzi! / Impiegato. / Impiegato…”.

Dal risveglio politico attizzato dal compagno Folagra (“Allora mi hanno sempre preso per il culo!”) al capolavoro di cineforum sul capolavoro “del maestro M. Einstein, La corazzata Kotiomkin”, la sua vita è una rivoluzione personale e professionale perennemente mancata e questa insoddisfazione perpetua tesse una ragnatela perfetta: la menzogna della società dei consumi. Le vittime non aspirano a far saltare in aria il sistema, bensì a riprodurre e perpetuare gli stessi schemi disumanizzati. Così, tutti i tentativi di rovesciamento dell’ordine prestabilito finiscono con un ritorno in ginocchio dai padroni. “Oltre al nostro perdono, gli offriamo la gioia purificatrice di meritarselo / Accetterei comunque”. E Fantozzi ricomincia da capo nella Megaditta, come parafulmine.
“Io l’ho solo pensato”, si giustifica quando la scritta “IL MEGAPRESIDENTE È UNO STRONZO” compare in cielo, e la spiegazione arriva proprio da lui: “Lei non deve pensare, Fantozzi: questo è il suo errore”, non si deve pensare in un sistema “tritacarnone” (sì, è un omaggio reverenziale a Fracchia contro Dracula) che si nutre della gratitudine servile di chi sta bruciando sul suo altare, “cancelli e scriva di sé stesso quello che ha scritto di me”. E come Akakij viene lasciato morire di freddo in mezzo alla strada, a Ugo non è permesso di parlare nemmeno durante la cerimonia di pensionamento. “Non la dimenticheremo mai, Bambocci”. Poi guarda l’incisione sull’orologio commemorativo: “Ragionier Ugo Pupazzi”.
L’italiano medio non ha il senso dell’umorismo, non accetta la satira, non accetta certi discorsi se non contrabbandati, iperbolici. Riconosce “l’altro” nel personaggio Fantozzi, non sé stesso. Nessuno mi dice la verità: “Villaggio, sono io”.
Era l’anno 1978 quando Paolo concesse quell’intervista. Quasi mezzo secolo dopo, la maschera del ragionier Fantozzi, così come la lucidità e il genio di Villaggio, continuano a essere più necessarie che mai.
Siamo tutti usciti…