“Questo film è una favola”, disse Luigi Comencini durante la conferenza stampa di presentazione di Delitto d’amore (1974).

Difatti, al centro della storia c’è una bellissima principessa, Carmela Santoro (Stefania Sandrelli), arrivata dalla sua lontana isola sicula nelle inospite terre del nord, ovvero la Milano imbizzarrita degli anni ’70. La principessa Carmela, però, non passa le giornate ricamando preziosi tessuti in un giardino di rose bianche, ma ammazzandosi (nemmeno tanto lentamente) di lavoro in una mastodontica fabbrica che emette “fumi di tutti i colori”. Non parla con gli uccelli, ma li sotterra, quando li trova morti lungo il fiume contaminato.

Tutti asfissiati, come l’albero che, a modo di scheletro beffardo, protegge il suo fatiscente castello di ringhiera alle porte della metropoli. E naturalmente c’è anche un bellissimo cavaliere anarco-comunista, Nullo Bronzi (Giuliano Gemma), oriundo del regno meneghino, che per sposare la sua amata dovrà salire su un cavallo rosso Guzzi e attraversare nebbie infinite e boschi di cemento, lottando contro cognati allo stato brado, progenitori razzisti, fanatismi ideologici e troppi servi dei padroni infami. Meglio i draghi.

Giuliano Gemma e Stefania Sandrelli in Delitto d’amore. Luigi Comencini, 1974.

Operai innamorati

Quando si parla di Luigi Comencini, vengono subito in mente alcuni dei pezzi del cinema popolare per eccellenza (in primis, l’uragano “pane e amore”) o il riduttivo luogo comune di “regista dell’infanzia”, appellativo, del resto, tutt’altro che dispettoso per chi firmò il più bell’adattamento del Pinocchio di Carlo Collodi. Ma la sua fu una carriera a tutto tondo, che spaziò dal neorealismo -e, appunto, il neorealismo rosa- al (melo)dramma, dalla commedia all’italiana agli esercizi documentaristici e metacinematografici. Quasi una quarantina di titoli che espongono alla berlina i vizi e le virtù, gli smarrimenti e i sogni infranti di un intero Paese.

Nel 1972, Comencini aveva girato Lo scopone scientifico, puro dramma travestito da commedia surreale e grottesca, che fruga nei rapporti tra ricchi (americani) e poveri (borgatari romani) e nel sempre appiccicoso rapporto tra morale e potere. Da favola nera a favola nera, due anni dopo tornò sull’argomento, questa volta utilizzando fili melodrammatici e nuotando nei meandri del mondo operaio, in Delitto d’amore, degno di essere annoverato tra i gioielli dimenticati del cinema italiano. Una trascuratezza forse inevitabile, vista la sufficienza con cui il “popolare” (anatema!) regista di Salò è stato spesso trattato dalla critica nostrana.

Con quei fili, però, tesse un arazzo di realismo sociale che sbrana il sistema capitalistico in tutte le sue declinazioni e fa una feroce radiografia all’Italia di fronte agli sgoccioli del boom. La crisi degli anni ’70 stava dimostrando che il miracolo economico postbellico non era eterno e il nuovo panorama sociale, politico e culturale -con giovani, donne e operai come attori principali delle trasformazioni- trovò nel cinema un alleato privilegiato: coetanei di Delitto d’amore furono il capostipite La classe operaia va in Paradiso (Elio Petri, 1971), Mimì metallurgico ferito nell’onore (Lina Wertmüller, 1972) e Romanzo popolare (Mario Monicelli, 1974).

Non per caso, Comencini prese in prestito due pilastri della trilogia della nevrosi di Petri: la penna di Ugo Pirro e la luce di Luigi Kuveiller. Il risultato è una favola molto, troppo umana, che comincia e finisce con uno sparo, lo stesso. A premere il grilletto è Nullo, davanti alle porte della fabbrica. Di fronte, il padrone; dietro, i compagni, bandiere rosse, striscioni, una marea di consegne, una su tutte: “UNITI CONTRO LA FABBRICA DELLA MORTE”. Uno sparo che ci sprona, con dantesca urgenza, a lasciare ogni speranza, o noi che entriamo in questo lungo flashback pronto a trasformarci in testimoni della storia di amore dei due giovani operai. E non solo.

Nel seguire le orme di Carmela e Nullo, Delitto d’amore passa in rassegna le schizofrenie di un’Italia il cui baricentro strutturale si era drammaticamente spostato dalla campagna alla città, un’Italia disposta a mettere ai margini i figli incapaci di stare al passo con i tempi, vagliando con particolare attenzione il cinismo e la spietatezza della classe padronale, le lotte sindacali per migliorare le condizioni di lavoro disumane nelle fabbriche e l’inasprimento del processo di sradicamento di quella fetta immensa delle masse operaie procedente dal sud. Un esodo iniziato alla fine del Novecento e chiamato a diventare il capro espiatorio dei mali del sistema.

La grande bellezza

Comencini costruisce una storia elegante, dalla grande efficacia narrativa, giocata sui contrasti non solo mentali e sociali, ma anche visuali, dove pennellate di colore si aprono all’improvviso su tutte le sfumature del grigio presenti nella palla di nebbia che alberga questa storia. È il bianco delle piastrelle della casa di Nullo, al chissà quale piano di uno dei palazzi di pasoliniana memoria che crescono come mostruosi funghi di cemento in periferia (“¿Credi che sono ricco perché abito in uno di questi alveari?”), è il rosso della moto che diventa lampo di libertà, è l’accecante luce viola all’interno della fabbrica che scruta le mosse degli innamorati.

Ed è, soprattutto, la facciata della casa di Carmela, svelata con una poetica carrellata indietro. Un unico ambiente senz’acqua corrente né intimità, con i gabinetti in cortile e i bambini giocando nel fango, ma con un fronte dai colori pastello “tutt’altro che squallidi, che danno alla superficie della casa una sua bellezza misteriosa”, come segnala il critico Adriano Aprà. “Ho il sospetto che sia stata ridipinta, come ha fatto Michelangelo Antonioni nel Deserto rosso, che interveniva sul colore. Fatto sta che lo squallore di questa palazzina è corretto dalla colorazione delle singole case del secondo piano”, dove abita la numerosa famiglia Santoro.

Bellezza, ecco la parola d’ordine: inappropriata, fuori luogo, quella che ci trasmettono i colori quasi irreali, la stessa di Nullo e Carmela. Perché Delitto d’amore non è che una corsa disperata per proteggerla a costo della propria vita. “La prima volta non la guardasti bene [la casa] perché eri cieco d’amore e così vedevi solo me, ma se ora vieni e parli con mia madre, allora la guardi bene!”. Pochi mesi dopo, in un altro affresco imprescindibile su mondi sognati mai venuti alla luce, C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974), Nicola Palumbo (Stefano Satta Flores) riassumerà la situazione in quattro parole: “Ma non vi volevate bene / Sì, ma non basta”.

Innamorati operai

“Il sottotitolo di Delitto d’amore, riflette Aprà, “potrebbe essere Amore e veleni. E si fa fatica a pensare a una definizione più accurata di questa. Innanzitutto, Carmela è una vittima dei veleni ambientali, quelli generali e quelli che respira tutti i giorni nei forni della fabbrica, protetta dall’onnipotente bicchiere di latte offerto dai padroni. Quando ormai i polmoni sono fatalmente compromessi, la proposta del medico del lavoro (Renato Scarpa) è di “andare in impacchettatura, sarà come una villeggiatura!”. In anticipo sui tempi, Comencini denuncia il prezzo umano ed ecologico da pagare per una crescita industriale senza freni etici.

Logorata anche dalla mancanza di luce, chiede a Nullo di andare “in un posto dove c’è il sole”. Allora un campo lungo li riprende in mezzo a un boschetto; man mano che la macchina da presa si avvicina, però, li vediamo camminando in riva a un fiume talmente contaminato da sembrare “acqua saponata. Ci fecero il bucato?”, tra residui di ogni natura. “Prima era bello, tutto verde, qui nuotavamo, e adesso senti che puzza…”. Ne sono testimoni gli uccellini fulminati dalla contaminazione, che Carmela seppellisce, in un gesto di pietà disperata. Una sequenza bucolica alla rovescia, metafora terribile del loro amore, nonché del loro Paese. 

Ma Carmela è anche una vittima dei veleni metaforici: trasferitasi dal sud al nord dell’Italia, sembra arrivata da un altro pianeta. È innocenza, purezza, ma anche amara consapevolezza. Tre mesi a Milano l’hanno sottoposta a un processo di dissociazione, tra il sottobosco femminile in fabbrica, dove si parla di sesso, sogni e libertà, e il nucleo familiare, segnato da una morale tradizionalista, paternalista e misogina. Una donna che prende la pillola anticoncezionale, la stessa che, quando arriva al lavoro con un occhio nero, dice a tutti “che fosti tu [Nullo] perché, se le botte le da un fratello, è vergogna; se le da un fidanzato, è soddisfazione”.

Anche lui, a prima vista diverso, istruito, moderno, pagherà sulla propria pelle le vacuità e le contraddizioni dei credi ideologici ereditati, dalla famiglia comunista e atea, che si rivelerà la più razzista e classista (“Almeno si lava? / E poi parlate di uguaglianza. Un po’ di coerenza non guasta, neanche in casa Bronzi”), alle tante, troppe consegne sindacali che si scontrano contro una pila di morti sempre più alta. “Né le cause della morte di Carmela né i mostruosi meccanismi che contaminano i fiumi e distruggono la natura costituiscono nel mio film l’oggetto di un’inchiesta”, segnalava il regista, “le une e gli altri appaiono come due maledizioni”.

Perché Comencini non bara, non catechizza, non indottrina. Ed è questa genuinità a donare una potenza sconfinata al racconto. Delitto d’amore ci scuote dal punto di vista emozionale, non soltanto in termini strettamente romantici, ma anche -e, per molti versi, con maggiore irruenza- come membri dello stesso corpo sociale. La vendetta di Nullo è privata solo in apparenza: la loro storia riannoda il senso della storia collettiva di un Paese che, mezzo secolo dopo, conta ancora quasi tre morti sul lavoro al giorno. C’è di tutto in Delitto d’amore, tranne il lieto fine. C’è, soprattutto, cinema. Il più raffinato, rabbioso e luminoso cinema italiano.


Delitto d’amore

Un film di Luigi Comencini, 1974. Italia, Documento Film. Colore, 97′.

Soggetto: Ugo Pirro. Sceneggiatura: Luigi Comencini, Ugo Pirro. Interpreti: Antonio Iodice, Brizio Montinaro, Bruno Cattaneo, Carla Mancini, Cesira Abbiati, Emilio Bonucci, Giuliano Gemma, Luigi Antonio Guerra, Marisa Rosales, Pippo Starnazza, Renato Scarpa, Rina Franchetti, Stefania Sandrelli, Torquato Tessarini, Walter Baldi. Fotografia: Luigi Kuveiller. Montaggio: Nino Baragli. Scenografia: Paola Comencini. Direttore artistico: Dante Ferretti. Musiche: Carlo Rustichelli.