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Quando Mario Bava si imbarcò nelle riprese di Cani arrabbiati, sembrava che la sua carriera da regista di lungometraggi, iniziata nel 1960 con la meraviglia intitolata La maschera del demonio, stesse arrivando al capolinea. Era l’anno 1973 e il maestro sanremese attraversava un momento professionale delicato, dopo due fiaschi commerciali: Reazione a catena (1971) aveva registrato incassi deludenti al botteghino e Lisa e il diavolo (1973), presentato in primavera al Festival di Cannes, non era nemmeno uscito in sala.
Decise allora di esplorare una nuova strada, anzi, un crocevia di cammini, poiché risulta impossibile mettere i suoi Cani arrabbiati dentro la gabbia di un genere specifico. La sceneggiatura, scritta da Alessandro Parenzo (al contrario, appena uscito dal successo di Malizia) e Cesare Frugoni, con la collaborazione di Bava e di suo figlio Lamberto, aiuto regista del film, prende spunto da un racconto di sole cinque pagine, L’uomo e il bambino, di Michael J. Carrol, appendice di un Giallo Mondadori pubblicato nel 1971.

Storie molto amate da Mario, il colpo di fulmine fu tale che ne acquisì immediatamente i diritti: in una giornata d’estate a Roma, dopo una sanguinosa rapina al portavalori che trasporta le paghe settimanali di un’industria farmaceutica, tre delinquenti -il Dottore (Maurice Poli), Trentadue (George Eastman), Bisturi (Don Backy)- prendono in ostaggio una donna, Maria (Lea Lander), e salgono sulla macchina di un uomo, Riccardo (Riccardo Cucciolla), che sta portando il figlio malato all’ospedale.
E, siccome svelare troppi dettagli di questa trama fulminea sarebbe un delitto di lesa maestà, diciamo soltanto che i tre banditi e i tre ostaggi intraprendono una fuga costellata di… incidenti. Marcello Mastroianni diceva: “Se continuiamo così, Il viaggio di G. Mastorna lo faremo nell’aldilà”, in riferimento all’ormai mitico progetto di Federico Fellini che, contrattempo dopo contrattempo, finì col non vedere mai la luce. Lo stesso avrebbe potuto dire di Cani arrabbiati, il quale, però, ebbe un miracoloso finale felice.

Dopo quasi trent’anni nel mestiere, Mario Bava aveva fatto del basso costo un’arte, ma qui il budget era nel sottosuolo. Il progetto, nato sotto buoni auspici -tra i partner ingaggiati da Roberto Loyola, vi erano i responsabili di Deep Throat (Gola profonda, Gerard Damiano, 1972)-, annegò nelle cattive acque affaristiche in cui da tempo nuotava il produttore. Le riprese avanzavano a singhiozzo, a seconda dei fondi disponibili, il che non intasò i rapporti umani sul set, con una squadra protagonista affiatata e in perfetta sintonia con il regista.
“Bava era sempre calmo, sempre calmo”, ricorda Poli, “e tutti eravamo consapevoli che si trattasse di un film fenomenale”. Calma era ciò che ci voleva: oltre alle incertezze economiche, giravano in inglese e in italiano, sotto il sole cocente del Lazio -in quei giorni, il termometro si avvicinava troppo spesso ai 40º-, a Roma e, soprattutto, sull’autostrada verso Civitavecchia, con tanto di tratto provvidenzialmente chiuso per lavori e due macchine a disposizione, una funzionante e l’altra su un pianale.

Nonostante le difficoltà, riuscirono a completare le riprese nel giro di quattro settimane, ma la post-produzione non era ancora finita quando la Loyola Films dichiarò bancarotta. La guardia di finanza mise i sigilli alle moviola e Cani arrabbiati dormì il sonno dei giusti per più di vent’anni. Solo nel 1995 venne recuperato con il titolo Semaforo rosso, grazie all’impegno di Lander, che riuscì a farsi con i diritti del film in Germania. Una prima esumazione che spianò la strada ad altre cinque versioni dell’opera, con due doppiaggi diversi.
La più nota è Kidnapped (2002), prodotta da Alfred Leone: dopo aver comprato i diritti negli Stati Uniti, incaricò Lamberto e Roy Bava di montare il lungometraggio più vicino a ciò che Mario avrebbe voluto, con il copione del girato e il montaggio provvisorio del 1973 come guida. Questa fedeltà provocò l’inclusione di due brevi scene, compresa quella iniziale, che, come ha riconosciuto Roy, “non sappiamo se [mio nonno] le avrebbe montate, c’era il dubbio se effettivamente potesse anticipare la sorpresa del finale”. Un colpo di scena agghiacciante. Magistrale.

Opera maledetta, opera di culto, la cosa certa è che si tratta di un capolavoro, tra i più rivoluzionari del nostro cinema, nonché una delle guardie del corpo ideali dell’universo Bava: se La maschera del demonio fu la prima regia in solitario, segnata dalle collaborazioni con Riccardo Freda negli anni ’50, dopo Cani arrabbiati solo un titolo mancava all’appello, Schock (1977). Perla rara nella sua carriera, sia dal punto di vista estetico che da quello argomentale, qualsiasi etichetta sarebbe, nel contempo, giusta e sbagliata.
Poliziesco più o meno puro nella sequenza iniziale della rapina, in linea con il filone che stava esplodendo in Italia, sfocia a continuazione e per tutto il resto del metraggio in un road movie dal montaggio indiavolato, un calderone nel quale si mischiano elementi del thriller, del giallo e del pulp, strizzando l’occhio persino ad alcuni horror statunitensi del periodo. Sembra ingestibile, vero? Solo Bava era in grado di fare quest’operazione e ottenere un risultato assolutamente personale e assolutamente geniale.

Arriflex in mano, costruisce un’atmosfera claustrofobica, con uso e abuso (e “abuso” ha connotazioni tutt’altro che negative) di primi e primissimi piani, a cui si aggiunsero la decisione di non usare trasparenti e una fotografia realizzata prevalentemente con luce naturale. Lo spettatore, settimo passeggero di un inferno di lamiere, può toccare la pelle ardente e il sudore che cola dalle tempie dei protagonisti, rimanendo intrappolato in un meccanismo di tensione perfetto, dove la parola “tregua” non è un’opzione.
Per la prima volta, Bava si imbatte in una storia realistica, violenta fino all’esasperazione e raccontata in tempo reale, che perlustra le stanze scure dell’anima, come una sorta di sequenza dell’evoluzione umana: la psicopatia schizoide e l’erotomania di Trentadue e Bisturi, l’ambiguità del Dottore, la disperazione di Maria, l’apparente imperturbabilità di Riccardo. “Ti stai comportando un po’ troppo tranquillamente per i miei gusti. Non vorrai giocarci qualche scherzo, vero? / No, per niente, mi interessa solo di farla finita in fretta / Sarà meglio per te”.

Nella giostra che fu la produzione di Cani arrabbiati, la parte di Riccardo era stata assegnata a Al Lettieri, reduce de Il padrino (Francis Ford Coppola, 1972), ma venne sostituito dal pugliese per problemi di salute. Un improvviso riequilibrio: Cucciolla, come confermato da Lamberto, era “l’attore che mio padre, fin da quando aveva letto il racconto, aveva visto”, non solo per questioni artistiche –“Lo impersonò magnificamente, da grande attore che era”-, ma anche fisiche, con l’aspetto “di padre di famiglia standard e anche di ciò che non ti aspetti”.
E così, chi atterrò sul set a riprese iniziate, chi doveva nascondere in maniera strategica i fogli del copione perché non parlava una parola d’inglese, diventò la pietra d’angolo di un film che respira proprio come il suo personaggio, come una creatura accerchiata dai mostri in carne e ossa. Un tour de force fisico e psicologico per tutto il cast in una storia di ordinaria follia, di quella ferocia quotidiana dell’Italia degli “anni di piombo” che provocava un profondo disagio al regista, al cittadino, all’uomo Bava.

Attraverso un’estremizzazione del linguaggio cinematografico, prende corpo un’indagine lucida e priva di moralismi “su una società al di sopra di ogni sospetto”, nella migliore tradizione di Elio Petri, che aveva già sfornato la “trilogia della nevrosi”. All’interno dell’automobile c’è il male, ma fuori c’è un mondo cosiddetto moderno e civile dominato dal più feroce interesse privato, dove opportunisti e sociopatici sono in vendita per un pugno di lire. Dunque, se il sistema non funziona, possiamo farci giustizia da soli?
Oggi lo sappiamo: né Reazione a catena né Lisa e il diavolo erano mediocri. Il primo era un gioiello chiamato a esercitare un’influenza paragonabile ad altri monumenti coetanei, come la “trilogia degli animali” di Dario Argento; il secondo, l’affascinante omaggio di un lettore onnivoro a Il Bafometto di Pierre Klossowski. Ma, grazie a due insuccessi tanto inspiegabili quanto provvidenziali, Cani arrabbiati vide la luce. È la vita: ci costringe a prendere delle strade inaspettate che poi si rivelano decisive.
Come la mattina in cui Riccardo, fermo a un semaforo rosso, si ritrovò una pistola puntata alla tempia.
Cani arrabbiati
Un film di Mario Bava, 1973. Italia, Loyola Films – Spera Cinematografica – International Media Films. Colore, 94′.
Soggetto: tratto dal racconto L’uomo e il bambino, di Michael J. Carrol. Sceneggiatura: Alessandro Parenzo e Cesare Frugoni, con la collaborazione di Mario e Lamberto Bava. Interpreti: Don Backy (Aldo Caponi), Ettore Manni, George Eastman (Luigi Montefiori), Lea Lander, Marisa Fabbri, Maurice Poli, Riccardo Cucciolla. Montaggio: Carlo Reali. Fotografia: Emilio Varriano. Musiche: Stelvio Cipriani. Dichiarazioni tratte da: Manlio Gomarasca e Davide Pulici, Con la bava alla bocca (Nocturno Cinema, Rarovideo).
Così ebbe inizio la leggenda: