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C’era una volta Jorge Serra Hamilton (Edmund Gwenn), scienziato atomico che, angosciato dall’uso distruttivo che le potenze mondiali stavano dando alle sue scoperte, si rifugiò in un paesino sperduto del Mediterraneo, Calabuch, dove trovò un paradiso su misura, con l’aiuto del contrabbandiere Aragosta (Franco Fabrizi) e della maestra Eloisa (Valentina Cortese). Ma un giorno d’estate, durante le feste patronali, uno spettacolo pirotecnico tutt’altro che discreto attirò pericolosamente l’attenzione della stampa.


E cominciamo così perché Calabuch (1956) è una favola: c’era una volta, appunto, un paese dove un giorno “arrivò un uomo chiamato Jorge. Era il 17 maggio del 195… Quel giorno, lo scienziato atomico ricercato da tutti i Paesi amanti della pace -per proteggerlo, si capisce- scoprì due cose che lui non aveva inventato: il cielo e il mare”. Quarto film di Luis García Berlanga, quello in cui tracciò già con inequivocabile nitidezza le frontiere della sua geografia sentimentale e tecnica, fu la prima collaborazione tra il regista ed Ennio Flaiano.
Entrambi costruirono la storia a partire da un’idea originale di Leonardo Martín, collaboratore di Marco Ferreri nella sua tappa spagnola, e vengono tradizionalmente attribuiti a Flaiano i tratti più teneri dei personaggi e a Berlanga quelli più ironici e satirici. Curiosità “percentuali” a parte, Calabuch segnò l’inizio di un sodalizio geniale che sarebbe esploso in maniera definitiva nel capolavoro La ballata del boia (El verdugo, 1963), con Nino Manfredi memorabile nei panni di un uomo buono schiacciato dalla burocrazia e l’inerzia sociale.


Tuttavia, anche se parliamo di uno dei due film diretti da Berlanga non nati da una sua idea originale (l’altro, Novio a la vista, 1954), si tratta, come riconosceva, di uno di quelli in cui si colgono, in filigrana, più riferimenti personali. Perché Calabuch è Peñíscola, a nord della sua Valencia natia: grazie alla magnifica fotografia di Francisco Sempere, la luce folgorante del Mediterraneo diventa l’altra grande protagonista di una storia girata in ambienti reali, naturali e architettonici, ancora senza i morsi dell’urbanizzazione selvaggia delle coste.
Questa bellezza fece innamorare Jorge e non solo: Charlton Heston cavalcò sulla spiaggia di Peñíscola ne El Cid (Michael Mann, 1961) e, se il castello dei templari e molte stradine e cortili di questo villaggio di pescatori vi risultano familiari, non vi sbagliate, poiché essi servirono come scenario per svariate sequenze de Il trono di spade (Game of Thrones). Un palcoscenico perfetto, dunque, che la coproduzione ispano-italiana seppe sapientemente riempire, a cominciare da Gwenn, in quello che sarebbe stato il suo ultimo ruolo.


L’attore inglese sbarcò in Spagna reduce delle riprese de La congiura degli innocenti (The Trouble with Harry, Alfred Hitchcock, 1955) e, nel costruire il vecchio scienziato, si ispirò non soltanto al suo precedente Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) -un’altra riflessione, questa volta in chiave fantascientifica, sugli effetti devastanti delle prove atomiche-, ma anche al Babbo Natale de Il miracolo della 34ª strada (Miracle on 34th Street, George Seaton, 1947), che gli era valso l’Oscar al miglior attore non protagonista.
Delicatezza, consapevolezza, dignità sconfinata. A Calabuch, il dottor Serra Hamilton è semplicemente Jorge, un vagabondo, un viaggiatore stanco, mezzo matto, mezzo saggio. A nessuno importa del suo passato, tutti -compreso, un pochino a malincuore, il commissario Matías (Juan Calvo)- accettano senza porsi troppe domande la versione di Aragosta (un Franco Fabrizi di nuovo irresistibile “vitellone”), divenuto il suo cicerone: “Matías, che bisogno c’è dei documenti? È mio zio, non te lo ricordi? Quello che aveva sposato mia zia a Málaga…”.


Film corale, di quelli che Berlanga modellava con maestria, trai i nomi “fedelissimi” del regista valenciano trovano incastro perfetto i nuovi arrivati, alla maniera di Jorge nel delizioso paesaggio umano di Calabuch, dove lo scienziato si scoprirà contrabbandiere, proiezionista, giardiniere e persino arbitro delle partite (telefoniche) di scacchi tra don Ramón, il guardiano del faro (José Isbert) e don Félix, il prete (Félix Fernández): “Ma io sono protestante… / Nessun problema: nella mia chiesa è vietato l’ingresso soltanto agli usurai e agli scacchisti sleali!”.
Con quest’atmosfera, Flaiano strizza l’occhio alla sua avventura felliniana, dagli echi di Gelsomina in Aragosta, ogni volta che suona la tromba, al simbolismo della spiaggia, teatro ricorrente -dei giochi pirotecnici in Calabuch, delle riprese ne Lo sceicco bianco, del circo ne La strada– dove si (con)fondono le frontiere della vita e il sogno. Acque fiabesche che permeavano con facilità l’immaginario degli anni ’50 e agevolavano la distribuzione internazionale del film, noto nel mercato anglosassone come The Rocket from Calabuch, Il razzo di Calabuch.


Ma questa storia è fuori dal tempo solo in apparenza. Calabuch viene scaraventato nel mezzo di una scacchiera molto diversa da quella di don Félix e don Ramón, vale a dire, nel mondo diviso dalla Guerra fredda, dove imperversava la paura nucleare. E, come spesso succede con la commedia, il film riesce ad articolare una critica sociopolitica più feroce ed effettiva di qualsiasi dramma. Dietro un sorriso tenero, capriccioso e malinconico, si cela il forte compromesso con la realtà al quale il regista rimase sempre fedele.
Così, attraverso una sorta di neorealismo campagnolo che aiutò a schivare le forbici del censore di turno, conosciamo un popolo che non si era scrollato di dosso il fantasma della guerra civile. Una Spagna da quasi vent’anni all’ombra della dittatura, ancora segnata dall’arretratezza economica e intellettuale, dove il contrabbando era una necessità, la stampa di regime regnava incontrastata e il tasso di analfabetismo rurale era spaventoso.


“Sai cosa mi piace di Calabuch?”, dice Jorge a Eloisa, “Che qui ognuno fa ciò che vuole, anzi, ciò che ama”. Lo scienziato, la maestra e il contrabbandiere sono tre esempi illustri dell’anarchismo vitale che attraversò una delle carriere più straordinarie della storia del cinema, non solo spagnolo: quella del maestro Berlanga. Ed è precisamente la loro rivendicazione del diritto alla felicità e alla libertà personale, che non dobbiamo mai dare per scontata, l’aspetto più rivoluzionario di questa meraviglia ispano-italiana chiamata Calabuch.
Calabuch
Un film di Luis García Berlanga, 1956. Spagna – Italia, Águila Films – Films Costellazione. 93′, b/n.
Soggetto: Leonardo Martín. Sceneggiatura: Ennio Flaiano, Florentino Soria, Leonardo Martín, Luis García Berlanga. Interpreti: Casimiro Hurtado, Edmund Gwenn, Félix Fernández, Francisco Bernal, Franco Fabrizi (come Franco Fabrizzi), Isa Ferreiro, José Isbert, José Luis Ozores, Juan Calvo, Lolo García, Manuel Alexandre, Manuel Guitián, Mario Berriatua, Maruja Vico, Nicolás Perchicot, Pedro Beltrán, Valentina Cortese. Fotografia: Francisco Sempere. Montaggio: Pepita Orduña. Scenografia: Román Calatayud. Musiche: Guido Guerrini.
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