—
Dopo anni di latitanza tra Svizzera e Italia, il gangster Abel Davos (Lino Ventura), disperato per trovare una sistemazione stabile alla sua famiglia, decide di tornare in Francia, nonostante la condanna a morte in contumacia che gli pende sulla testa. Ma i vecchi colleghi, ormai cittadini al di sopra di ogni sospetto, non sono disposti a correre rischi e lasciano l’operazione di rientro a Parigi in mano a un giovane sconosciuto, Éric Stark (Jean-Paul Belmondo).

Seconda fatica dietro la cinepresa per Claude Sautet, che negli anni ’70 si reinventerà cronista sentimentale della borghesia, Asfalto che scotta (1960) è il suo capolavoro personale e una delle più compiute espressioni del connubio tra carta e pellicola alla radice dell’universo poliziesco francese. Qui il chicco è il romanzo omonimo di José Giovanni, responsabile della sceneggiatura assieme al regista e a Pascal Jardin, penna privilegiata dalla quale uscirono anche gioielli come Il buco (Jacques Becker, 1960), Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide (Jean-Pierre Melville, 1967) e altri adattamenti da lui diretti, uno su tutti, Ultimo domicilio conosciuto (1970).
Quando la cucina dei truand si stava sgretolando e dal forno uscivano, nelle parole di Bertrand Tavernier, “prodotti perfettamente intercambiabili”, Giovanni la sottopose a una miracolosa ristrutturazione, segnata dalla sua conoscenza diretta dei bassifondi e della vita dietro le sbarre, con un’attenzione preziosa ai tipi umani: i cliché, sia psicologici che ambientali, non furono più un’opzione. Caratteristiche tutte sublimate in Asfalto che scotta, che il parigino definiva “il miglior adattamento di una mia opera letteraria”. Come si spiega, dunque, l’ostracismo in cui ha vissuto per tanto tempo un esempio così nobile di cinema? Per una banale questione di tempismo.

Asfalto che scotta uscì in sala il 10 aprile del 1960, tre settimane dopo Fino all’ultimo respiro, e l’uragano diretto da Jean-Luc Godard finì per oscurare un film dall’apparenza squisitamente classica. Solo negli ultimi tempi si è cominciato a capire la sua forza eversiva, anello di congiunzione tra la tradizione gangster del dopoguerra e l’esplosione della Nouvelle vague, che per alcuni versi anticipa, nonché la sua influenza in filmografie come quella di Melville. Il meglio del film policier e del roman policier si concentrano in una rivoluzione che fa propria la lezione del genere, la trascende e la trasforma in un’opera profondamente personale e originale.
La prima metà di Asfalto che scotta corre sui binari del polar puro: l’ultimo colpo prima di valicare la frontiera (sequenza “godardiana”, anche se costruita con più solidità, filmata di nascosto nella stazione centrale e per le strade di Milano) e il conseguente inseguimento -in macchina, in motocicletta, in barca-, essenziale ed estremamente efficace. La seconda, a partire dall’ingresso in Francia, si apre verso la favola esistenziale. E lo fa senza privarsi mai dell’azione, una transizione dalla naturalezza disarmante per lo spettatore perché combina la penetrazione nella psicologia dei personaggi con un potente uso simbolico degli spazi, sempre più ristretti e asfissianti.

A reggere in equilibrio questa bilancia, una squadra attoriale ineccepibile, da Marcel Dalio a Jacques Dacqmine, passando (soprattutto) per Sandra Milo, Liliane, attrice in un momento di smarrimento personale che, ignara di tutto, si unisce al gruppo nella rotta verso Parigi; misurata e vera, Sandrocchia era alle porte della sua straordinaria Pina ne La visita (Antonio Pietrangeli, 1963). E una menzione speciale a Stan Krol, conosciuto da Giovanni nel carcere de La Santé, che dà vita a Raymond Naldi, amico (vero) di Abel e complice nella rapina ai portavalori milanesi: un ruolo-non-ruolo sulla scia di Roland Barbat ne Il buco, anch’egli ex compagno di cella dello scrittore.
Un’orlatura di lusso per una coppia protagonista semplicemente perfetta. Jean-Paul Belmondo fu la sorpresa –ça va sans dire, per questioni cronologiche- di Asfalto che scotta. Oggi conosciamo bene la bomba ad orologeria soprannominata Bébel, ma allora non era che un 26enne promettente, con alcune commedie sentimentali e qualche breve prova drammatica con Marcel Carné e Claude Chabrol nel curriculum. La sua popolarità esplose proprio con Fino all’ultimo respiro, in un anno segnato anche dall’arrivo nel cinema italiano, che da lì a pochi mesi gli avrebbe donato “uno dei ruoli più belli della mia carriera”, il Ghigo de La viaccia (Mauro Bolognini, 1961).

Provvidenziali si rivelarono Ventura, Giovanni e Sautet, che lo vollero ostinatamente a loro fianco, a scapito dei più spendibili Laurent Terzieff o Gérard Blain; oltre a ciò, grazie al regista, Éric Stark venne ridisegnato, dando centralità drammatica a un personaggio più marginale nel romanzo. L’attore non si lasciò scappare l’opportunità e, doppiato in maniera eccezionale da Massimo Turci, ne fece la definizione di carisma e stile: un incrocio tra innocenza infantile, sfrontatezza giovanile e mascolinità irresistibile, decisivo nel felice esito del film. Un dato curioso: all’inizio, nemmeno Lino Ventura venne salutato con grande entusiasmo dai produttori. Lungimiranti, non c’è che dire.
Perché, quando sbarcò sul set di Asfalto che scotta, Lino aveva già alle spalle una manciata di titoli di tutto rispetto, dal debuttante Angelo in Grisbì (Becker, 1954) al commissario Cherrier di Ascensore per il patibolo (Louis Malle, 1957), ma Abel Davos -modellato sulla figura di Abel Danos, un altro compagno di galera di Giovanni- fu il ruolo più emozionalmente ricco fino a quel momento. Una bellezza sublimata dal fatto che il parmigiano doppia sé stesso nella versione italiana, una delle poche (e gloriose) occasioni che abbiamo di ascoltarlo recitando nella sua lingua madre, come nel monumentale Cadaveri eccellenti (Francesco Rosi, 1976).

È lui l’anima di un racconto che gioca con tutte le coordinate del poliziesco -amicizia, lealtà, tradimento, sopravvivenza-, introducendole nei domini dell’esistenza umana con una profondità e una carica di autenticità senza precedenti nel genere e probabilmente mai superate. Asfalto che scotta è la discesa nell’inferno di un gangster, ma anche, soprattutto, di un padre, di un marito, di un amico che non vive nemmeno un momento di gloria, che paga ogni errore: non è un solitario, è un uomo solo, l’incarnazione del senso assoluto della solitudine esistenziale, emozionale e fisica. Senza vie d’uscita, senza niente da perdere. O forse sì.
Abel interpreta come un affronto l’arrivo di uno sconosciuto, ma man mano che il cerchio attorno a lui si chiude e la loro amicizia cresce -un po’ fratelli, un po’ padre e figlio, un po’ figlio e padre-, capisce che è l’unico in cui può confidare. Perciò il titolo originale, Classe tous risques, valuta i rischi, centra l’essenza di questa storia: è un monito per Abel, ma anche per Éric, perché quel giovane è tutto ciò in cui Abel ha creduto, è Abel prima della prima decisione irrimediabile. “Ci si crede sempre i più dritti. E poi si scende sempre più giù, fino al nulla. Fino a oggi”. E che succede quando la vita scotta? Molte cose, tra cui pezzi memorabili di cinema.
Asfalto che scotta
Classe tous risques. Un film di Claude Sautet, 1960. Francia – Italia, Mondex Films – Les Films Odeon – Filmsonor – Zebra Films. 104′, b/n.
Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di José Giovanni. Sceneggiatura: Claude Sautet, José Giovanni, Pascal Jardin. Interpreti: Claude Cerval, Jacques Dacqmine, Jean-Paul Belmondo, Lino Ventura, Marcel Dalio, Michel Ardan, René Génin, Sandra Milo, Simone France, Stan Krol. Fotografia: Ghislain Cloquet. Montaggio: Albert Jurgenson. Scenografia: Rino Mondellini. Musiche: Georges Delerue.
Dichiarazioni tratte da: Bertrand Tavernier, Classe tous risques: Beautiful Friendships (The Criterion Collection, 2008), Luciano Melis e Laurent Ventura, Lino Ventura (Éditions de La Martinière – Gaumont, 2019), Guillaume Evin, Belmondo, le livre Toc, Toc, Badaboum! (Hugo Image, 2021).
“La gente non dovrà mai sapere la verità”: