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È spesso difficile e quasi sempre ingiusto scegliere il regista “che meglio ha saputo rappresentare [riempite a piacimento: qualsiasi cosa va bene]”. Se parliamo, però, di cinema italiano e universo femminile, alla cinepresa di Antonio Pietrangeli spetta un incontestabile posto d’onore nell’elenco, da Nata di marzo (1958) a Io la conoscevo bene (1965), passando per La parmigiana (1963) o La visita (1964), del quale abbiamo parlato in occasione del David di Donatello alla carriera concesso a Sandra Milo e che la propria attrice ricordò durante la premiazione come il ruolo più bello della sua filmografia.

Femminile universale
In Adua e le compagne (1960), il regista fa saltare il banco con ben quattro ritratti femminili: intente a ricomporre i loro rompicapi vitali dopo l’approvazione della legge Merlin del 28 febbraio 1958, che disponeva la chiusura delle case di tolleranza, quattro prostitute affittano un casale alle porte di Roma per allestirvi “una trattoria rustica e, una volta avviata, si ricomincia, meglio di prima, senza un padrone che ci sfrutta”. Ma il negozio-paravento ingrana bene e dà il via a un percorso di riscoperta personale, mettendo sul tavolo una carta inattesa: e se fosse possibile un vero reinserimento sociale?
Una sceneggiatura a otto mani (regali: Pietrangeli assieme a Tullio Pinelli e i fidatissimi Ettore Scola e Ruggero Maccari), che intreccia nella grande storia collettiva le parabole esistenziali di Lolita (Milo), ancorata ai sogni di gloria sul palcoscenico, Milly (Gina Rovere), tra il desiderio dell’amore e la certezza della paura, e Marilina (Emmanuelle Riva, appena uscita dai tour de force di Hiroshima mon amour e Kapò), una maternità da recuperare in balìa di una fragile stabilità mentale. E, soprattutto, di Adua (Simone Signoret), matriarca di quel circolo precario di solidarietà economica ed emozionale.
Fresca di Oscar per La strada dei quartieri alti (Jack Clayton, 1959), bella, bellissima, nel punto dove la giovinezza dirompente comincia a cedere il passo a qualcosa di molto più affascinante, la Signoret -doppiata da Lilla Brignone– fa un esercizio di pura classe, una tempesta di rabbia, impotenza e speranza, di ironia e dolore malcelato. Sulle note jazz di Piero Piccioni, il suo volto diventa terreno di sperimentazione privilegiato per le delicatezze espressive della cinepresa di Pietrangeli, che insegue le protagoniste come un’altalena emozionale, spinta da una fotografia -ancora un fidatissimo, Armando Nannuzzi– in cerca delle piegature dell’anima.
Ma dove vi ho pescate, voi? Vi ho proprio scelte nel mazzo: quella che se ne va, l’altra che è peggio di un mulo e tu che hai paura dell’oscuro. Ma che siete, figlie di Maria? Se eravate al posto mio, che facevate? In Africa, con la guerra, io ci stavo, però, sotto una tenda, sempre la fila fuori. Poveri cristi, il giorno dopo morivano. Passavano, passavano, eppure non sono crepata…

Il boom e altre menzogne
Dall’incrocio di generi dove si muoveva con maestria, Antonio Pietrangeli si mostrò attento ai mutamenti sociali dell’Italia del “miracolo economico”, con uno sguardo spesso amaro e sempre geniale. Se i Fantasmi a Roma (1961) erano stati i portavoce del suo atto di accusa contro una società che sguazza nell’arrivismo, il consumismo selvaggio e la volgarità (“La fiaccola dell’ignoranza ha appiccato fuoco al mondo!”), in Adua e le compagne la denuncia civile si fa ancora più diretta, tirando delle coltellate feroci al corpo socio-culturale di un Paese brulicante di pregiudizi, moralismi e ipocrisia.
Con il soffio neorealista proprio di chi fu sceneggiatore del movimento (compresi Ossessione e Viaggio in Italia, anche se non accreditato, in pieno stile Fernando Di Leo), il film si piazza tra i più delicati di una carriera profondamente umana, che seppe leggere genere e classe, ma trascendendoli -ecco la chiave della lucidità di Pietrangeli-, per tracciare le mappe emozionali di creature straordinarie mai capite dalla società: dalle quattro prostitute alla borghese di provincia Pina ne La visita, dalle origini umili della meravigliosa Adriana di Stefania Sandrelli in Io la conoscevo bene al nobile anarchismo del principe di Roviano di Eduardo De Filippo.
In Adua e le compagne, il suo occhio di solidarietà sincera e militante mette in luce le zone d’ombra che hanno tutte le rivoluzioni e fa con la legge Merlin ciò che Giulio Manfredonia farà molti anni dopo con la legge Basaglia in Si può fare (2008): raccontare il secondo tempo della partita, quello che, dopo l’approvazione di una riforma legislativa, trova ogni giorno meno spazio nel mercato mediatico. Nel 1958 la prima, nel 1978 la seconda, queste leggi evidenziarono le conseguenze mortali -dal punto di vista fisico o morale, quando non entrambi- della differenza di ritmi tra legalità e realtà.

Signorine, lucciole, puttane
Se l’esortazione dello psichiatra veneziano Franco Basaglia -ovvero, che la legge 180 significava tutt’altro che lasciare i pazienti da soli- nella maggioranza dei casi non trovò riscontro nella realtà e gettò migliaia di esseri umani (e le loro famiglie) nel baratro, la legge 75 lasciò senza un adeguato piano di recupero sociale quasi 3000 donne in tutta Italia. La lotta della senatrice Lina Merlin aveva l’obiettivo di contenere la schiavitù sessuale femminile e puniva il reato di “sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione”, ma, nel farlo, imboccò, per molti versi, il percorso contromano.
La legge non metteva le donne che volevano abbandonare la prostituzione nelle condizioni di farlo e, inoltre, assumeva che, chi decidesse liberamente di prostituirsi, restava marchiata a vita: una posizione paternalista che abbracciava (e rinforzava) il concetto di “stigma morale e sociale”, continuando a restringere la libertà individuale. Anche se non configurava la prostituzione come reato e chi la esercitasse non poteva (teoricamente) essere schedata, alla prova dei fatti il testo si rivelò cartastraccia nel seno di una società perbenista e meschina, che faceva fatica persino a pronunciare la parola “puttana”.
Così, la speranza durante il primo sopralluogo al casale –“Le hanno bruciate le schede, adesso siamo come le altre”– svanisce troppo presto, quando scoprono che non possono nemmeno ottenere la licenza di apertura, ricadendo nel ricatto economico e fisico del rispettabilissimo pappone (Claudio Gora). E, come lui, “l’avvocato” (Ivo Garrani), che gira indisturbato per il locale chiedendo “quando si apre il piano di sopra”, mentre moglie e figlio aspettano al tavolo. E, come lui, Piero (Marcello Mastroianni) -venditore di macchine, incantevole ciarlatano, illusione di futuro per Adua-, che stenta a credere che, dopo tre mesi, le donne non abbiano cominciato a “lavorare”.

Il verbo essere
– Ma allora, lassù al casale, voi non…? Non dico mica te, che c’entra… Io mi credevo che… No? Mi sono sbagliato, scusami… Lo sai che facciamo? Domani ci pensiamo, ci arrangeremo in qualche maniera! Ci vado a parlare io [con il pappone]!
– Avanti, Piero, continua! E che gli vai a dire? Che la pensi come lui? Che va bene così? Perché tanto voi siete tutti d’accordo: tu, lui e gli altri. E noi, che cosa siamo? Bollate, BOLLATE COME LE VACCHE!
Pietrangeli denuncia un brutale determinismo sociale che lascia nel burrone del progresso tutti i profili “non normali”, “non conformi” per qualsivoglia ragione: economica, sociale, sanitaria. “Non ha importanza quello che eravate: conta quello che siete, quello che sarete”. Le parole di fra Michele (Duilio D’Amore, in un ruolo che strizza l’occhio a fra Felice de I vitelloni) non sono abbastanza per le donne, intrappolate in una doppia gabbia, legale e sociale, che nega il diritto alla propria vita. “Glielo dico io quello che saremo: quello che eravamo!”, Marilina trasuda rabbia e orrore, “Perché? Perché è così”.
Adua lancia una sfida aperta per l’indipendenza economica e personale. E la perde, la perdono tutte: anche se nella scena finale non sappiamo che fine abbiano fatto Milly, Lolita e Marilina, lo possiamo intuire in una Roma senza luna. “Io mica sono come quelle là. Sto qua soltanto per fare un po’ di soldi. Ho visto un posto formidabile…”. E le burle si scatenano sotto l’acquazzone (“Adua, raccontale di Modugno, ubriacona!”), mentre i clienti si fermano dalle colleghe più giovani. E Simone Signoret che a stento si regge in piedi, con il peso della storia -sua, del Paese, del mondo- sulle spalle, su e giù per il porto di Ripa Grande, non si scorda facilmente.

Adua e le compagne
Un film di Antonio Pietrangeli, 1960. Italia, Moris Ergas per la Zebra Film. 120′, b/n.
Soggetto: Antonio Pietrangeli, Ettore Scola, Ruggero Maccari. Sceneggiatura: Antonio Pierangeli, Ettore Scola, Ruggero Maccari, Tullio Pinelli. Interpreti: Antonio Rais, Claudio Gora, Domenico Modugno, Duilio D’Amore, Emmanuelle Riva, Enzo Maggio, Gianrico Tedeschi, Gina Rovere, Ivo Garrani, Marcello Mastroianni, Sandra Milo, Simone Signoret, Valeria Fabrizi. Fotografia: Armando Nannuzzi. Montaggio: Eraldo Da Roma. Scenografia: Luigi Scaccianoce. Musiche: Piero Piccioni.
Nessuno ha diretto Sandra Milo come il sor Pietrangeli: