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Ivan e Wanda Cavalli (Leopoldo Trieste e Brunella Bovo) si recano a Roma in viaggio di nozze con due programmi molto diversi in mente: mentre lui ha calcolato la giornata sul filo dei secondi per fare colpo sullo zio (Ugo Attanasio), alta personalità del Vaticano, lei vuole incontrare l’attore Fernando Rivoli (Alberto Sordi), protagonista de “Lo sceicco bianco”. Così, quando la giovane, ammaliata dal clima che si respira nella redazione del celeberrimo fotoromanzo, sale sul camion che sta portando la troupe verso il litorale, Ivan si lancia in una corsa contro il tempo per ritrovarla e, soprattutto, per occultare ai familiari la scandalosa sparizione.


“Non mi sarei mai aspettato di diventare regista, ma dalla prima volta che gridai: Motore! Azione! Stop!, mi è sembrato di farlo da sempre. Quello ero io e quella era la mia vita”. Lo sceicco bianco (1952) si apre con l’arrivo degli sposini alla stazione Termini; rigurgitati dal treno in mezzo alla folla, salgono sulla carrozza che li porterà in albergo. È il doppio sbarco in un nuovo universo: per Ivan e Wanda, nella Capitale, così diversa, immensa, affascinante; per gli spettatori, nell’universo di Federico Fellini, così diverso, immenso, affascinante.
Il riminese -che si era fatto le ossa come sceneggiatore, aiuto regista e, in particolare, con la famosa “mezza” regia di Luci del varietà (1950), assieme a Alberto Lattuada– scrisse nel suo debutto in solitario dietro la cinepresa la prima lettera d’amore al cinema, brulicante dei topoi più tardi battezzati “felliniani” e destinati a stravolgere la settima arte. Come se Federico, sulla spiaggia di Fregene, tra figuranti spaesati, bagnanti ingombranti e un cammello preso in prestito dallo zoo di Roma, megafono in mano, gridasse: Che lo spettacolo abbia inizio!
E, curiosamente, si trattò di un’eredità: nel 1949, Michelangelo Antonioni (“Bel regista, Antonioni”) aveva girato il cortometraggio L’amorosa menzogna, sul mondo del fotoromanzo, e ne aveva tratto un dattiloscritto di venti pagine intitolato Caro Ivan, fondamenta di quello che avrebbe dovuto essere il suo primo film. Ma, ammalatosi, la proposta passò a Lattuada, che la rifiutò, e poi, finalmente, a Fellini, fino a quel momento coinvolto nel progetto soltanto (si fa per dire) in qualità di sceneggiatore.


Con la collaborazione di Tullio Pinelli, Fellini disegnò una storia irresistibile e la fece sua da tutti i punti di vista. Scartato Totò, troppo costoso, per la parte del “caro Ivan” -era lui il fuggiasco sognatore nel testo originale di Antonioni- vennero presi in considerazione il proprio Sordi, con un provino che non soddisfece nessuno, Rascel, Macario, Carlo Croccolo e Peppino De Filippo. Ma fu quel patrimonio dell’umanità chiamato Leopoldo Trieste a fare un sorpasso clamoroso all’illustre elenco.
Il reggino sfoggiò un talento attoriale strabiliante, tutt’altro che una sorpresa per Fellini, stregato dalle sue prove precedenti per Sulla via di Guadalupe, film di Nino Bazzani che non vide mai la luce. Clown nato, nell’espressività facciale e linguaggio corporale dell’Ivan di “Poldino” (ecco il nome d’arte che Federico avrebbe voluto per lui) riecheggia il miglior Buster Keaton. A prestargli la voce, anche se è una mancanza non poter ascoltare Trieste, fu il sempre eccezionale Carlo Romano.
Così, il teatro italiano perse un fine drammaturgo, ma Fellini guadagnò un amico e il cinema, mezzo secolo di raffinata carriera artistica. E “indimenticabile” è l’aggettivo giusto per definire il suo tête-à-tête con Bovo, incarnazione dell’innocenza e lo stupore, doppiata -anche lei in maniera straordinaria- da Rina Morelli e che il regista amava sin da Miracolo a Milano. A completare la triade, un tale Alberto Sordi: il secondo provino andò talmente bene che il suo goffo sceicco sull’altalena condensa come poche immagini la magia del cinema.


Per la sceneggiatura, mi rifeci ai racconti che avevo scritto per il Marc’Aurelio in cui si riflettevano i miei pensieri sulla natura spietata delle storie d’amore, sull’amore giovanile che si confronta con la realtà dolceamara, sulla luna di miele che si irrancidisce, sulle delusioni dei primi tempi del matrimonio e sull’impossibilità di riuscire a conservare i romantici sogni iniziali.
In altre parole: che coss’è l’amor? Una domanda che (fortunatamente) non smetterà mai di tormentare l’essere umano e alla quale l’Italia del dopoguerra cercò di dare risposta attraverso i fotoromanzi. Un autentico fenomeno sociale -più di due milioni di copie vendute a settimana, un pubblico di lettori stimato in circa cinque milioni- in grado di creare un nuovo immaginario collettivo popolato da perfettissimi divi, che ogni giorno venivano sommersi dalle lettere delle loro devote ammiratrici.
Fellini affonda il coltello nell’anima patinata del nostro Paese, un falso scintillio che non interessava soltanto le miserie dello spettacolo, come evidenzia l’intreccio perfetto delle storie di Wanda e Ivan, ritmate dalla deliziosa colonna sonora di Nino Rota, tra il circo a tre piste e il melodramma: se la prima si rifugia in un mondo di fantasia che rivelerà tutto il suo squallore materiale e morale, il secondo lo fa in un non meno fantomatico concetto di onorabilità e nella ricerca spasmodica del posto fisso, altare sul quale sacrificare qualsiasi felicità personale.


La realtà sbranerà i loro miti, coltivati nel microcosmo provinciale, tanto asfissiante quanto sconfinato, che affascinava il regista, lasciando allo scoperto le fragilità delle luci della ribalta e delle ambizioni piccolo-borghesi, fatte di grigiore, conformismo, alienazione. “Questo è il primo film anarchico italiano”, scrisse Callisto Cosulich, all’epoca uno dei pochi in grado di capire la straordinaria carica eversiva de Lo sceicco bianco. Forse, neppure il suo autore se ne rese conto fino in fondo.
Sostituito da Guardie e ladri (Mario Monicelli e Steno, 1951) al Festival di Cannes all’ultimo minuto per ragioni mai chiarite, accolto con tiepidezza a Venezia, ignorato al botteghino, il giovane Federico fece presto i conti con l’incubo del sogno spezzato. Ma questa bozza di metacinema felliniano -ammasso stellare di dramma, commedia, assurdo, tenerezza, ferocia, ironia- era la porta d’ingresso all’universo del futuro maestro di cerimonie dell’immaginario italiano nel mondo.
Per Orson Welles, Lo sceicco bianco era il miglior Fellini e la sua affermazione è tutt’altro che una pazzia perché le (dis)avventure di Wanda, Ivan e il (niente affatto) divino Fernando, insieme agli altri gioielli del primo lustro del regista –I vitelloni, La strada, Il bidone e Le notti di Cabiria, non a caso protagonista di uno strepitoso cammeo nel film-, probabilmente siano quelli che mostrano la sostanza felliniana per eccellenza, ovvero il gioco infinito tra l’arte e la vita, nella sua forma più pura, innocente e meravigliosa.


Lo sceicco bianco
Un film di Federico Fellini, 1952. Italia, PDC – OFI. 86′, b/n.
Soggetto: Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Tullio Pinelli. Sceneggiatura: Federico Fellini e Tullio Pinelli, con la collaborazione di Ennio Flaiano. Interpreti: Alberto Sordi, Anna Primula, Armando Libianchi, Brunella Bovo, Elettra Zago, Enzo Maggio, Ernesto Almirante, Fanny Marchiò, Gina Mascetti, Giulietta Masina, Jole Silvani, Leopoldo Trieste, Lilia Landi, Mimo Billi, Piero Antonucci, Ugo Attanasio. Fotografia: Arturo Gallea. Montaggio: Rolando Benedetti. Scenografia: Raffaele Tolfo. Musiche: Nino Rota, dirette da Fernando Previtali.
Dichiarazioni tratte da: Tullio Kezich, Federico Fellini, la vita e i film (Feltrinelli, 2002), Federico Fellini, Fare un film (ET Saggi, 2015).
Per Wanda, Fernando Rivoli; per Marino e Marisa, Don Backy e Mogol: