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Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è, invece, disgraziata a modo suo.
— Anna Karenina (Lev Tolstoj, 1878).
Di famiglie felici, infelici, cambiamenti di costumi, bisogni e desideri, Dino Risi ne sapeva, eccome, e nel 1963, quando mancava quasi un decennio alla legalizzazione del divorzio in Italia e il Paese sperimentava il pieno dispiegamento della cultura di massa, girò uno dei suoi gioielli misconosciuti, Il giovedì: Dino Versini (Walter Chiari) -marito, fidanzato e imprenditore mancato- ottiene, dopo cinque anni di separazione, la possibilità di (ri)vedere il figlio 8enne, Robertino (Roberto Ciccolini), che fino a quel momento ha vissuto con la madre in giro per il mondo. Un appuntamento tra due estranei? Forse non troppo.


Il film era una delle creature predilette di Dino Risi (“Voglio molto bene a Il giovedì: dei piccoli, è quello che amo di più”), ma, quando uscì in sala nel gennaio del 1964, venne accolto con tiepidezza e ancora oggi non è strano vederlo trascurato o spacciato per un prodotto minore. Le ragioni della cecità odierna rimangono un mistero, un’altra sciocca ripetizione di luoghi comuni; all’epoca, invece, l’ombra de Il sorpasso (1962), del quale costituisce una sorta di secondo tempo, no giovò di certo alla sua carriera commerciale, così come non lo fece il protagonista, nonostante siamo di fronte a una delle sue prove più straordinarie.
E questo perché, come rifletteva il proprio regista, Chiari non venne mai identificato come un vero “volto cinematografico”. La critica non fu all’altezza del suo genio, disdegnandolo criminalmente fino alla fine, con tanto di Coppa Volpi strappatagli di mano alla Mostra di Venezia del 1986, un po’ per pressioni della DC, un po’ per quel voto di Alberto Lattuada, che ne approfittò per saldare un vecchio conto. Ugo Tognazzi, che avrebbe voluto il ruolo protagonista, disse a Risi: “Con me, Il giovedì avrebbe avuto successo”. Sicuramente aveva ragione e sicuramente non è una bella cosa (e no, non per Tognazzi).


Incomprensioni di qualsiasi natura a parte, fioccano le ragioni per annoverare Il giovedì tra i tasselli più incantevoli, malinconici e taglienti del mosaico della nostra commedia. Dino e Robertino, eredi della strana coppia formata da Bruno (Vittorio Gassman) e Roberto (Jean-Louis Trintignant), si imbattono in un viaggio in macchina che li porta a ripercorrere Roma, dintorni e loro stessi, con delle soste decisive simili a quelle de Il sorpasso: la spiaggia, il ristorante, la visita ai parenti. Una giornata che immerge i cinque sensi dello spettatore nell’Italia felice dei primi anni ’60, sulle note di Sergio Endrigo, Rita Pavone e Gianni Morandi.
Risi (ri)disegna la geografia sentimentale del Paese attraverso le icone radiofoniche e televisive (con tanto di cammeo delle sorelle Kessler), il turismo di massa, l’autostrada del Sole in costruzione e la speculazione edilizia, il consumismo selvaggio e persino il caleidoscopio dell’emancipazione femminile in tempi pre-sessantottini, attraverso un interessante triangolo comparativo: la moglie tedesca di Dino (Carol Walker), fredda professionista di successo internazionale, la fidanzata Elsa (Michèle Mercier), in equilibrio precario tra lavoro e possibile famiglia, il primo amore Lidia (Milena Vukotic), andata in secca dopo un progetto di matrimonio fallito.


Ma è il sentiero scelto in quest’occasione da Risi per ripercorrerla a trasformare Il giovedì in un’esperienza nuova, particolare, personale, piena di riferimenti autobiografici: quello del rapporto paterno-filiale autentico, non più simbolico, segnato, inoltre, da un rovesciamento dei ruoli. Ciccolini, un miracolo di naturalezza, dà vita a un bambino brillante, adorabile, dotato di una maturità, un’indipendenza e una consapevolezza crudelmente profonde, risultato di una vita in apparenza perfetta (agiatezza economica, collegi d’élite, viaggi, giocattoli a volontà), dietro la quale si nascondono troppi legami spezzati, troppi vuoti affettivi.
Una bravura che fa di Robertino il vero coprotagonista del film, a fianco di un Chiari -riassumiamolo in due parole perché qualsiasi aggettivo gli andrebbe stretto- mattatore assoluto. Padre immaturo, eterno ragazzo affascinante, fallito secondo tutti gli standard di approvazione sociale in vigore dal dopoguerra (famiglia, macchina, lavoro), Dino va avanti a colpi di bugie e promesse, invaso da sogni di libertà che provano ad allontanare, sempre più faticosamente, il fantasma dell’inchiodatura in ufficio. Sono, ognuno a modo suo, due preziosi pesci fuor d’acqua, sopravvissuti per caso, due -strizzando l’occhio a una delle scene più belle- “vagabondi delle stelle”.


Il Ferragosto de Il sorpasso diventa una giornata di fine estate, asfissiante fino al momento in cui un acquazzone inaspettato svuota la spiaggia di Fregene. Come ne Lo sceicco bianco, fiammante primo Fellini che aveva visto la luce sulla stessa sabbia un decennio prima, anche ne Il giovedì la spiaggia segna l’irruzione della realtà nel mondo della fantasia. Il vento si porta via tutto e padre e figlio restano a nudo con le loro fragilità, parabola vitale che il regista paragona all’andatura di un “miracolo economico” che cominciava a mostrare i primi segni di cedimento: svaniscono i miraggi personali come stanno cominciando a svanire quelli sociali.
E lo fa con una lucidità feroce, con una sceneggiatura leggera, mai banale, che evita patetismi e stucchevolezze (un rischio evidente quando si parla dell’infanzia), ornata di continui colpi di genio. Basti un esempio: il carro funebre che sorpassa la macchina di Dino e Robertino, appena rimasta senza benzina, suonando lo stesso clacson della Lancia Aurelia B24 di Gassman. Attraverso la sua lente cinica e amara, sconfinatamente tenera e malinconica, Risi disseziona una società di massa volgare fino alla nausea, un perverso ingranaggio sociale che non vuole niente di autentico, soltanto una schiera di pedoni omologati e intercambiabili.


Dino e Robertino vivevano nei loro rispettivi pianeti, poi diventati uno, come tanti personaggi della fattoria Risi, dalla sfilza di fantomatici successi inventati da Marco e Stefano (Gassman / Nino Manfredi), amici divisi dall’emigrazione ne Il gaucho (1964), alla fuga (musicata) dalla realtà di Marino e Marisa (Manfredi / Pamela Tiffin) in Straziami, ma di baci saziami (1968). Con la riscoperta della paternità, Dino si trova davanti a un bivio: è arrivata l’ora di lasciarsi schiacciare dal sistema? In un finale aperto, Il giovedì ci regala uno spiraglio di speranza perché l’irresistibile anarchia vitale di quel padre imperfetto non è che una delle ultime oasi di umanità.
Robertino, io oggi ti ho detto un sacco di bugie, ma proprio tante, tutte. La macchina americana non è mia, non è vero che ho un ufficio, non ho neanche un lavoro e non ho una lira. E di questo te ne sei accorto anche tu, vero?
Su Roma scende la sera e la risposta del piccolo non lascia spazio ai dubbi: “Posso venire a stare con te?”. E, così come Bruno Ricci (Enzo Stajola) prende per mano suo padre (Lamberto Maggiorani), umiliato e spintonato dalla folla, in Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), la prima cosa che Roberto chiede a Dino, umiliato e spintonato da un creditore, è “Papà, dammi la mano”. In una giornata ha capito che le castagnole, i campetti disastrati di periferia, il gelato al cioccolato o suo padre -vale a dire, tutto ciò che credeva barbaro- non sono che gli ultimi, ostinatissimi, baluardi di civiltà: “Non lo sapevi che le mani sono le posate del re?”.


Il giovedì
Un film di Dino Risi, 1963. Italia, DDL – Centerfilm. 100′, b/n.
Soggetto e sceneggiatura: Castellano e Pipolo, Dino Risi. Interpreti: Alice ed Ellen Kessler, Carol Walker, Consalvo Dell’Arti, Emma Baron, Margherita Horowitz, Michèle Mercier, Milena Vukotic, Olimpia Cavalli, Roberto Ciccolini, Salvo Libassi, Silvio Bagolini, Umberto D’Orsi, Walter Chiari. Fotografia: Alfio Contini. Montaggio: Gisa Radicchi Levi. Scenografia: Alberto Boccianti. Musiche: Armando Trovaioli, con le canzoni Andavo a cento all’ora e Sono contento (Gianni Morandi), I tuoi capricci (Neil Sedaka), Pel di carota e Son finite le vacanze (Rita Pavone), Se le cose stanno così (Sergio Endrigo).
Qualche “prima forbice” in giro?